Articoli su Giovanni Papini

2021


Mario Scaffidi Abbate

Interviste immaginarie: Giovanni Papini e i caffè

Pubblicato in: L'Opinione delle Libertà.
Data: 31 maggio 2021




In Italia anche i Caffè hanno fatto la storia, non tutti, naturalmente, ma circa una ventina ne sono stati protagonisti, e per questo sono chiamati “Caffè storici”. Piero Bargellini diceva che non si potrebbe scrivere una pagina di storia né politica né letteraria né artistica senza citare il nome di un Caffè. Nello spazio di un secolo i Caffè presero il posto e l’importanza dei club politici e dei ridotti accademici. Succeduto alla soporifera cioccolata, bene accetta ai palati aristocratici e alle sieste dei salotti settecenteschi, il caffè diventò l’eccitante preferito dagli agitatori liberali, tanto che si potrebbe pensare, se i movimenti politici avessero gusti spiccati, che la reazione sorseggiasse cioccolata, mentre la rivoluzione beveva caffè.

I Caffè, infatti, ecco un’altra definizione, furono la caffeina delle rivoluzioni. A Parigi, sul finire del Settecento, furono il luogo di ritrovo preferito dai patrioti e dagli intellettuali, l’insurrezione spagnola del 1820 cominciò in un Caffè di Madrid, il Lorenzoni, mentre a Londra le coffee house ebbero una parte fondamentale nella lotta per la monarchia costituzionale. Lo stesso dicasi in Italia nel periodo del Risorgimento, in cui i Caffè svolsero un ruolo così importante che a Milano gl’intellettuali nei loro programmi, oltre alla illuminazione nelle strade, ai bagni pubblici e ai giornali, inserivano addirittura la costruzione di nuovi Caffè, affinché i cittadini potessero mantenere più stretti e continui contatti fra loro. I Caffè italiani hanno scritto tre secoli di storia sociale, politica e letteraria: il Fiorio a Torino, il Florian e l Quadrii a Venezia, il Savini a Milano, il Pedrocchi a Padova, il Michelangelo e le Giubbe Rosse a Firenze, il Greco e l’Aragno a Roma, il Caffè d'Europa e il Calzona a Napoli. Questi ed altri, compresi quelli stranieri, sono stati definiti luoghi decisivi per il destino culturale dell’Europa.

Ebbene, stamattina, entrato nello studio, visto che ormai sono prossimo alla fine, ho Pubblicato in: uno scaffale della mia libreria Un uomo finito, di Giovanni Papini (del quale da ragazzo mi sono fatto scattare da mio fratello una foto, per imitarlo anche fisicamente), e, come al solito, mi sono sdraiato sulla poltrona reclinabile e ne ho sfogliato alcune pagine. Papini è stato uno dei più noti frequentatori di Caffè, e un grande bevitore della bevanda da cui quei locali hanno preso il nome. L’ho conosciuto a Firenze, in cui mi ero recato per consegnare il mio primo romanzo all’editore Arnaldo Salani (che era amico di mio padre). L’ho visto proprio lì, in quella Casa Editrice, ma era di passaggio e ci siamo solo dati la mano, e lui se ne andò via. Ripensando a quel giorno, mi sono detto: “Ora faccio un’intervista pure a lui, lo conosco attraverso i suoi libri, fra i quali la Storia di Cristo e Rapporto sugli uomini”.

“Fratello mio!”, ho esclamato, non appena l’ho visto ergersi dentro di me col petto e con la fronte come se avesse il mondo in gran dispitto. “Così tu chiamavi i grandi personaggi morti a cui ti eri affezionato tanto”..

E lui con tono affabile mi ha risposto: “Anch’io posso ben chiamarti fratello. Oggi sono pochi quelli che mi amano e mi apprezzano. Dalla fine dell’ultima guerra anch’io, come D’Annunzio e Carducci, ho avuto i miei detrattori, che mi hanno ridimensionato solo perché ho amato la Patria. Per questo hanno scritto che i miei libri sono infarciti di retorica, anzi, che la mia retorica nazionalistico-patriottica ha superato ogni limite, che ho avuto una sola fede, quella nella parola come sostanza sonora e suggestiva di bello stile e di abile oratoria. Mi hanno attribuito pose da superuomo, mi hanno definito un Don Giovanni della letteratura, artificioso e freddo, che vuol mascherare con la pagina scaltrita la mancanza di autenticità”.

“Allora le lacrime che io ho versato sui tuoi libri da dove sono venute fuori?”

“Io però devo ammettere che non ho mai fatto nulla per attirarmi la simpatia degli uomini, sui quali, anzi, ho scritto spesso cose cattive e pungenti. Ho definito sadici i giornalisti, una casta potente di spie che ci propinano un beverone di piaggeria, di retorica e di menzogna. Dei burocrati ho detto che sono un cancro della società, che impediscono ai governi di governare, e me la sono presa persino coi filosofi, definendoli goffi e presuntuosi”.

“Tu hai frequentato anche il Caffè Aragno di Roma”.

“Durante gli ultimi anni del Leonardo andavo spesso a Roma e ogni volta mi trattenevo due o tre settimane. L’Aragno, allora, per via della sua Terza Saletta, era la mecca dell’intellettualità, sicché io dalla mecca fiorentina delle Giubbe Rosse mi trasferivo in quella dell’Aragno”.

“Oltre che da letterati la Terza Saletta era frequentata anche da politici, visto che il Caffè era a pochi passi da Montecitorio. Cardarelli ha scritto che nella Terza Saletta si entrava sovversivi e se ne usciva conservatori arrabbiati e nazionalisti, dannunziani e colonialisti”.

“Entrare in quel locale era un atto più temerario che saltare all’arrembaggio sopra una nave nemica con la scure in pugno e il coltellaccio fra i denti. Più che un Caffè era un foro, una basilica, un porto di mare. Per entrarvi ci voleva del coraggio e una gran voglia di farsi avanti”.

“Ma cos’aveva di tanto speciale la Terza Saletta?”.

“Di per sé niente. Aveva un color di tabacco, o di pulce, come diceva qualcuno, due mezze finestre sempre appannate per via del troppo fumo. L’aria era irrespirabile, ma noi ce ne gonfiavamo orgogliosamente i polmoni. E in quella piccola tazza di caffè che ci stava davanti ci sembrava di intingere, come per un battesimo di gloria, un lembo della toga praetexta della nostra adolescenza. Quanti caffè ho bevuto! Non solo all’Aragno, ma in tutta la mia vita. Il caffè mi dava l’ispirazione. Poi ho finito per detestarlo. Come tutte le altre cose”.

“E per quale motivo?”.

“Mi dava fastidio il fatto di dover essere debitore della mia ispirazione ai caffè che bevevo. E non soltanto a quelli. Se dopo aver bevuto due tazze di caffè diventavo più acuto, se connettevo meglio e mi sentivo più in vena dopo un bicchiere di spumante, se un brano di musica mi faceva nascere pensieri, immagini e intere pagine che diversamente non avrei saputo evocare, ebbene, allora mi chiedevo dove fosse il mio io esattamente. Ero talmente rimpastato con tante di quelle cose e di quelle persone da non poter raccapezzare le mie proprie membra. Avrei venduto l’anima al diavolo pur di liberarmi da tutti quei lacci e da tutti quegli obblighi che avevo nei confronti del mondo intero. Essere debitore a Dante, a Shakespeare o a Leopardi per me era già abbastanza noioso, ma dover qualcosa a una tazza di caffè o a un bicchiere di vino mi mortificava”.

“Ti capisco: ho provato anch’io questo fastidio. Se Feuerbach diceva che l’uomo è ciò che mangia, io rifiutavo il cibo perché inquinava la mia coscienza, tanto che spesso, quand’ero ragazzo, alla fine del pranzo mi chiudevo nel bagno, mi ficcavo due dita in gola e rigettavo. Poi mi facevo il segno della croce e ringraziavo Dio per il felice esito di quell’operazione”.

“Non volevo aver debiti con nessuno, sia materiali che spirituali. Come poteva appartenermi la mia vita quando era il risultato di centomila altre? E poi c’era di peggio”.

“Cioè?”.

“Certe volte temevo addirittura di dovere l’ingegno che avevo a cose assolutamente estranee al mio essere, e fisiche per giunta. Se diventavo più acuto dopo aver bevuto due tazze di caffè, allora una sciocca vergogna mi riempiva l’anima, e avevo il crudele sospetto di essere nient’altro che una macchina cerebrale, che rende quel che ci si mette dentro”.

“Ma che cos’ha di speciale il caffè come bevanda? E quando e dove è nato?”.

“Il suo luogo di nascita e la data sono alquanto controversi, e sarebbe troppo lungo parlarne. Una leggenda araba ne attribuisce l’invenzione ad Allah, il quale, tramite l'arcangelo Gabriele, l'avrebbe fatta pervenire a Maometto per svegliarlo da uno stato di torpore da cui non riusciva a scuotersi. Ma la sua scoperta risalirebbe ad un migliaio di anni fa, e Avicenna, il grande filosofo e medico arabo dell’XI secolo, dice infatti che il caffè era conosciuto fin dall’anno Mille. I medici dicevano che il caffè produceva gli stessi effetti del vino, e, come questo era proibito, così anche la nera bevanda fu considerata nociva alla salute e perciò messa al bando, altri sostenevano che provocasse l'apoplessia o addirittura che accorciasse la vita. Francesco Redi, nel Bacco in Toscana, scriveva Beverei prima il veleno, / che un bicchier che fosse pieno / dell’amaro e reo caffè’, e c’è stato invece chi lo ha esaltato quale fonte di felicità. Certo, l’uso eccessivo fa male: Balzac, per esempio, che ne beveva a fiumi, e quando scriveva teneva sempre a portata di mano, sulla scrivania, una caffettiera di porcellana, poteva ben dire che il caffè dà una specie di vivacità nervosa simile a quella della collera: la voce si alza, i gesti esprimono un'impazienza morbosa, si desidera che tutto vada alla velocità del pensiero, si è tesi, irritati per dei nonnulla, si acquisisce quel carattere volubile tipico dei poeti, tanto criticato dai droghieri, ma fu proprio l’uso esagerato del caffè che gli accorciò la vita. Marinetti era soprannominato la caffeina d'Europa, e D’Annunzio quando abitava alla Capponcina e restava segregato per mesi e mesi a lavorare, prendeva da dieci a quindici tazze di caffè al giorno”.

“Sul caffè gli scrittori hanno versato fiumi d'inchiostro. Il Parini nel Giorno nomina il caffè prima con una perifrasi, definendolo la nettarea bevanda ove abbronzato / fuma ed arde il legume a te d’Aleppo / giunto e da Moka, che di mille navi / popolata mai sempre insuperbisce e poi esplicitamente dice Ivi con gli altri / gratissimo vapor t’invita, ond’empie / l’aria il caffè che preparato fuma; Carlo Goldoni, ne La bottega del caffè’ scriveva È veramente una cosa che fa crepar di ridere, veder anche i facchini venir a bevere il loro caffè’; il Pananti Ma fra tutti uno solo non si diè / che mi offrisse una tazza di caffè; il Foscolo nelle Lettere annotava Lo stanzino ov’io mi sono trovato con molti altri non era una sala da giuoco, ma una stanza dove si faceva conversazione e si beveva il caffè. E Silvio Pellico racconta che, avendo chiesto un caffè si sentì rispondere che era un oggetto di lusso, mentre Leopardi nell’Epistolario scriveva: “Avvertite in tutto quest’Anno di trattare bene cotesti Signori, non solo col caffè”, e Guido Gozzano ne La Signorina Felicita scriveva: “A quest'ora che fai? Tosti il caffè, e il buon aroma si diffonde intorno!’”.

“Sono innumerevoli le definizioni che sono state date dei Caffè: scuole di sapere, tribune, basiliche, scatole di politica, microcosmi della società, succursali dello studio, simbolo e veicolo di una specie di religione dell’intelletto, delizioso spettacolo da teatro, catalizzatore di un’urbanità più perspicace e di una tendenza alla conversazione, confraternite, centri di raziocinio e di lucidità, e così via”.

A quel punto è entrata mia moglie, che giusto giusto mi portava la solita tazzina di caffè. Ho riaperto gli occhi, e adesso era lei che mi si ergeva davanti col petto, con la fronte e tutto il resto.

“Ma che, dormivi?”, mi ha chiesto con un tono quasi di rimprovero.

“No”, le ho risposto: “Stavo parlando con Papini”.


Caro caffè, tanto amato e lodato

da poeti, scrittori e musicisti,

non so come farei senza di te.

Tu sei il filtro benefico che accende

la mia torpida mente, e più discendi

nei miei precordi, più mi tiri su.

Tu mi sei necessario più del pane,

più di qualunque farmaco, o caffè.

Non è tanto il sapore, è il tuo profumo

inebriante, che mi fa godere

più del tenero amplesso d’una donna.

Cos’altro dirti? Tu sei proprio un dio,

se veramente t’ha creato Allah.



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